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Immagine del redattoreRiccardo Riosa

Paolo Canè condivide le sue esperienze: dagli svedesi degli anni '80 alla Coppa Davis di oggi

A Sotto Rete approda una leggenda del tennis italiano: Paolo Canè. Subito si sente l'energia del campione che ci racconta il suo percorso iniziato da bambino a 8 anni. Inizia giocando sia a tennis che a calcio fino agli 11 anni in cui arriva il momento della scelta: si può continuare ad allenare una sola disciplina. Già che pareva bravetto, vada per il tennis. Paolo mette l'impegno al primo posto, non per vincere, ma per migliorare ogni giorno ogni singolo colpo, fino a esser convocato nel centro di selezione degli atleti top in Italia diretto da Mario Balardinelli a Formia.


La grande impresa delle Olimpiadi di Los Angeles '84 determinano l''inizio della carriera di Paolo. Anche se la disciplina del tennis è dimostrativa porta a casa un glorioso bronzo olimpico e viaggia verso le grandi sfide con gli svedesi. Dopo un ottimo risultato a Bordeaux nel '86 con Kent Carlsson, vince nel '91 con Gunnarsson a Bologna, ma sopra a tutte è celebre la partita con Mats Wilander a Cagliari '90. Durante la Coppa Davis svoltasi in Sardegna gioca la finale la domenica, la partita assume un tono molto combattuto fino ad arrivare a raggiungere il 2-2 al buio e dover proseguire il giorno dopo, imponendosi al quinto set per 7-5. «Dopo il turno domenicale sono tornato in albergo per restare solo e concentrarmi sulla ripresa del giorno dopo – spiega Canè – non potevo perdere». Poche pressioni, la Svezia era in finale "solamente" da 7 anni consecutivi, ma Paolo mantiene un buon equilibrio mentale e porta il tricolore alla storica vittoria.


Che ne pensa della nuova formula di Coppa Davis? «Non è riuscita benissimo. Una volta giocare la Coppa Davis voleva dire fare trasferte, fare gruppo. Ora sembra più fredda, manca il calore del pubblico, che aggiungeva al torneo un fascino unico».


Lo chiamavano Neuro-Canè: il nomignolo datogli dal cronista Gianni Clerici gli si addice «Sì, sono stato criticato, ma questo modo di essere mi ha anche aiutato, allenavo la mente attraverso il fisico e viceversa: le due parti non si possono scindere. In ogni caso è sempre stato di primaria importanza, pur perdendo le staffe, il rispetto per il pubblico: anche McEnroe lo faceva, ma si impegnava nel gioco al 100%».


«All'epoca il gioco era estremamente diverso, vedevamo Agassi come l'imbattibile e giravamo da soli nei tornei. Se giocassi oggi avrei di sicuro un fisioterapista in squadra, non tanto per sistemarmi, quanto per prevenire gli infortuni. Il gioco era più lento, ora i campi sono più veloci, addirittura la terra rossa».


Le 4 regole per poter arrivare all'agonismo?

- l'allenatore deve avere la passione di stare in campo

- il giocatore deve volersi mettere in gioco: ti do il mio tempo, ma non farmi perdere tempo

- il processo di maturazione deve essere fisico e mentale

- non si deve aver furia di bruciare le tappe, nemmeno per l'ingresso in gioco






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